6 anni… 8 anni… 10 anni… Chi offre di più? O di meno? Il dibattito su quanti anni siano necessari affinché un cittadino straniero possa ottenere il diritto di voto in Italia (diritto al quale peraltro molti italiani, anno dopo anno, stanno volontariamente rinunciando…) è poco avvincente. Ogni tesi ha la sua confutazione. Forse è un finto problema. La boutade di Gianfranco Fini non possiede un grosso significato politico, ma si inserisce a pieno titolo nella politica mediatica, in auge da qualche anno.
Oltretutto, la “leggenda sinistra” della destra razzista solo perché erede del fascismo, che emanò le famigerate leggi razziali (a proposito, forse il comunismo ha riservato agli Ebrei miglior sorte?), non ha tanta presa nella pubblica opinione. Perciò destano meraviglia sia i nutriti consensi (soprattutto nel versante cattolico, comunista ed industriale) sia le ferme proteste (da sponde leghiste e nazionaliste).
Il pericolo vero che si nasconde dietro questa “sparata” non è certo nei 150 mila immigrati (qualcuno, però, dice 350 mila) che conquisterebbero il diritto di voto alle elezioni amministrative, ma potrebbe celarsi nel progetto culturale che la proposta sottintende. Qualche sospetto viene leggendo le parole di Amos Luzzato, presidente dell’Unione delle comunità ebraiche, che oltre ad aver promosso a pieni voti Fini (è stato l’ultimo nulla osta indispensabile per il biglietto della “El Al”) si è sbilanciato fino ad individuare un comune concetto di cittadinanza individuato nelle parole del presidente di A.N.: «Una cittadinanza che non è collegata a una lingua, a un’origine più o meno lontana sul territorio, a una religione, a una cultura o peggio ancora a una stirpe. I rigidi confini nazionali hanno fatto il loro tempo e un futuro interculturale è inevitabile, soprattutto nei paesi più sviluppati economicamente come quelli europei».
Un’idea antitetica ai concetti di comunità, di nazione, di popolo che riempiono ed ammantano discorsi e testi sacri della cultura di destra. L’affermarsi senza regole della “politica senza idee”, denunciata da Marcello Veneziani nel suo ultimo libro (“La sconfitta delle idee”): «È il destino dell’Occidente, le idee rappresentano un ostacolo all’esercizio quotidiano del potere, un intralcio all’agire pratico della politica». Forse Fini, tantomeno Luzzato, non ha letto “Comunitari o Liberal”, dove Veneziani, disegnando scenari futuri, parla dei “comunitari”, contrapposti ai “liberal”, come coloro che assegnano «valore al legame religioso, familiare, nazionale, non vivendolo come vincolo, ma come risorsa».
Invece, i concetti espressi da Luzzato si conciliano maggiormente con quelli di un pensatore come Toni Negri (ex ideologo di Autonomia Operaia, condannato a 17 anni di carcere per insurrezione armata contro lo Stato), attualmente considerato uno delle menti del “movimento new global“. Nei suoi ultimi libri (“L’impero” e “Del ritorno”), Negri sostiene la teoria dell’Impero che prevede «un attacco allo Stato-Nazione, istituzione distruttiva, generatrice di totalitarismi e guerre, che dovrebbe essere rimpiazzata da una nuova forma di governo». Un nuovo ordinamento imperiale e globale che ha come obiettivi la distruzione degli Stati nazionali e quindi l’abbattimento delle frontiere, peraltro stessa speranza dell’oligarchia finanziaria, presunta nemica principale del movimento antagonista. Infatti, la “finanza mondiale” considera nemici proprio gli Stati sovrani che coi confini e con le leggi potrebbero ostacolare la libera circolazione di merci, uomini e capitali.
Siamo all’anticamera del mondialismo, che, con la creazione di un unico Stato Mondiale contrapposto agli Stati nazionali, realizza la forma politica più consona alla globalizzazione economica, che, privando di sovranità gli Stati nazionali, contempla un unico grande mercato senza cittadini, ma solamente consumatori. Chi difenderà questi “ex cittadini” se non esisterà più la sovranità degli Stati nazionali? Pare impossibile considerare Gianfranco Fini nel ruolo di punta di diamante del processo mondialista e globalizzante (seppure dalla destra politica una vera e sensata critica al globalismo in difesa delle identità non sia mai arrivata), ma è facile osservare che la politica del “piccolo cabotaggio” – con valutazioni e proposte che non tengono conto degli scenari mondiali futuri, ma esclusivamente della “politica bottegaia” di casa nostra, degli spazi di ambizione all’interno della coalizione e del rapporto interno con le componenti del partito – ha fatto perder di vista al presidente ed ai suoi “fedelissimi” un progetto politico degno di questo nome e soprattutto le radici culturali ed i valori dai quali, volenti o nolenti, abiuranti o meno, Alleanza Nazionale proviene.