Ho letto con rispetto e interesse il libro di Silvia Giralucci “L’inferno sono gli altri” recentemente pubblicato per i tipi di Mondadori. Rispetto per il ricordo ancora vivo in me del padre Graziano e di Giuseppe Mazzola, prime vittime delle Brigate Rosse, entrambi assassinati nella sede del M.S.I. di Padova il 17 giugno 1974 e interesse perchè, avendo vissuto in prima persona quegli anni in quella città, leggo sempre tutto ciò che viene pubblicato sull’argomento, da qualunque parte provenga.
La Giralucci dopo una sintetica e alquanto parziale ricostruzione storica sulla Padova “crocevia delle trame eversive rosse e nere” volta a fare apparire la strage di Piazza Fontana come “l’evento che farà sentire gli estremisti di sinistra autorizzati a reagire con altrettanta violenza”, introduce una serie di interviste con ex militanti e pentiti di Autonomia Operaia, con il PM che istruì il “processo 7 aprile” e con una delle vittime degli autonomi, il Prof. Guido Petter, ex partigiano, sprangato selvaggiamente mentre tornava a casa in bicicletta.
Queste storie, sono state raccolte con pazienza dall’Autrice per capire “Com’è potuto accadere che una città di provincia sia diventata il crocevia delle trame eversive rosse e nere? Che cosa voleva dire per tanti giovani essere ‘sovversivi’? Come si arriva ad accettare lo scontro fisico come metodo di confronto politico? Che cosa significa militanza? Ha a che fare con i simboli, con una identità intesa come richiamo retorico? E ancora, che cosa ha spinto magistrati, politici, amministratori, docenti universitari a rischiare la propria vita e quella dei loro familiari per difendere la legalità?”
Domande legittime che forse era giusto porre anche, mi permetto di osservare, per rendere la ricerca veramente completa, a chi ha militò, come capitò al Padre di Silvia, dall’altra parte.
Perchè l’altra parte, per Toni Negri e compagni non era la “cellula eversiva” di Franco Freda, erano le organizzazioni giovanili di un partito che aveva propri rappresentanti in parlamento e che si chiamava Movimento Sociale Italiano. Perchè a Padova, negli anni che precedettero le “gambizzazioni dei docenti universitari di sinistra”, a provare sulla propria pelle le prime violenze dei futuri autonomi furono proprio quei ragazzi del Fronte della Gioventù (l’organizzazione giovanile del M.S.I.) che nel libro vengono menzionati solo per ricordare un processo per “tentata ricostitutzione del disciolto PNF” istruito contro di loro nel 1976, tre anni prima, dallo stesso PM del “7 aprile” (portato allora sugli altari da quelli stessi esponenti di Autonomia che il magistrato avrebbe inquisito tre anni dopo¹) “…per una lunga serie di pestaggi e violenze…”. Ma non andò così, o meglio, non proprio così.
Violenze, sopraffazioni, attentati incendiari, pestaggi volti ad impedire l’agibilità politica ai “fascisti” ovunque e comunque. Questo il clima, imposto da Potere Operaio e poi dall’Autonomia, che si viveva in città. Certo, fra i ragazzi di destra ci fu anche qualcuno che a volte non aspettò di essere attaccato e prese, sbagliando, l’iniziativa ma, il più delle volte, anche considerando il rapporto 10 a 1 allora esistente, era l’ultrasinistra ad attaccare e i ragazzi del Movimento sociale a doversi difendere.
Il torto imputato a quei ragazzi fu di resistere, e anche con una certa vigoria, in totale assenza della difesa dei propri diritti costituzionali da parte dello Stato, a quella violenza quotidiana che veniva praticata sulla base di un progetto che prevedeva l’annientamento fisico dell’avversario come recitava lo slogan “uccidere un fascista non è reato” urlato allora nei cortei di Potop prima e in quelli di Autonomia Operaia poi senza che nessuna pia anima “democratica” si scandalizzasse più di tanto. Un progetto figlio di quella cultura positivista che vede l’altro da sè come una razza antropologicamente inferiore da eliminare, se necessario.
Aggiungerei perciò alle domande di Silvia Giralucci altri interrogativi per capire “Com’è potuto accadere che in una città come Padova per alcuni anni la magistratura abbia permesso la crescita di una organizzazione (Potere Operaio prima e Autonomia poi) che aveva fra i suoi scopi dichiarati l’impedire l’esercizio delle libertà di pensiero e di parola garantite dalla Costituzione ad un’altra organizzazione politica (il Fronte della Gioventù) e ai suoi aderenti? Che cosa voleva dire per un ragazzo allora militare a destra? Che cosa ha spinto tanti ragazzi a rischiare la propria vita per difendere il proprio diritto di esistere politicamente in una situazione dove tutti i poteri erano contro la Destra?
Domande che forse non interessano a nessuno ma che andrebbero poste per capire o almeno ascoltare l’altra parte, mai interpellata.
E’ bene ricordare che negli anni ’70 in ogni città d’Italia la Sinistra parlamentare – e non – chiedeva a gran voce lo scioglimento del M.S.I. e che un generale clima d’odio era quotidianamente alimementato contro la Destra politica dalla grande stampa e dalla TV di Stato. Erano gli anni dell’ “arco costituzionale”, quella sommatoria di partiti uniti dalla discriminante antifascista, volta ad escludere la Destra dal gioco politico allo scopo di arginare i successi elettorali del M.S.I. Quel clima generò ventuno morti fra i imilitanti della Destra italiana², uccisi prima dalla violenza avversaria e poi, per una seconda volta, dal complice silenzio dei media.
Per Padova il tempo però fu galantuomo: eliminati nel 1976 i giovani “fascisti” del Fronte della Gioventù con l’accusa di aver tentato di ricostituire il PNF (…), uno dei due elementi della teoria degli scontri fra opposti estremismi venne improvvisamente a mancare.
Se il problema della violenza a Padova fossero stati veramente “i fascisti”, a quel punto la calma sarebbe tornata in città. Ovviamente non fu così perchè le violenze dell’ultrasinistra non cessarono, in quanto il progetto di sovversione “dell’ordine borghese” doveva proseguire secondo un programma ben definito. Loro con i “fasci” si erano solo allenati³, di lì in avanti le cose si sarebbero fatte serie. E alzarono il tiro. Fu quando nel 1979 cominciarono a gambizzare i baroni universitari del P.C.I. che la magistratura padovana, dopo sei anni di attese, iniziò a muoversi.
Non erano bastati evidentenmente gli omicidi di Mazzola e Giralucci (1974) né quello dell’appuntato Niedda (1975) per comprendere l’evidente connessione tra aree dell’Autonomia operaia padovana e le Brigate Rosse.
Non erano bastati sei lunghi anni di violenze quotidiane (Graziano Giralucci la settimana di essere assassinato dalle B.R. fu duramente percosso dagli autonomi), di espropri proletari, le devastazioni di beni pubblici e privati.
Solo quando gli allievi di Toni Negri iniziarono a toccare il partito di Berlinguer le cose cambiarono rapidamente. Non fu facile perchè gli autonomi erano intanto cresciuti in organizzazione e potenza al punto tale da poter tenere in scacco un’intera città in qualunque momento lo desiderassero, ma soprattutto perchè eranostati abituati all’impunità più completa, costruita dall’ignavia di chi poteva fermarli per tempo e non l’aveva fatto.
Uno dei militanti di Autop intervistati da Silvia Giralucci, oggi ultracinquantenne, così sintetizza il suo pensiero: “Che cos’è la democrazia? Non contano solo i numeri. Io devo far sentire la mia forza: noi lo abbiamo fatto con le nostre battaglie, sui trasporti, sul lavoro nero, sul salario per il lavoro domestico… A questo, mi spiega servivano gli attentati, le notti di fuoco, le guerriglie urbane. Dimostrazioni di potenza, adrenalina pura. E’ stato il periodo più entusiasmante della mia vita. Noi volevamo rendere questa società migliore.”
Ecco, credo che un ragazzo “fascista”, oggi ultracinquantenne, se avesse l’occasione di essere sentito dall’Autrice potrebbe dirle: “in quegli anni ho rischiato la mia vita e quella dei miei cari per difendere il semplice diritto di esistere della mia gente, avendo ben presente davanti agli occhi il sacrificio di Suo Padre e di Giuseppe Mazzola. Ciò facendo, ho fatto definitivamente mio il valore inestimabile della libertà “.
¹) “Nord Est” (settimanale delle Venezie anno III n. 88 29 luglio 1976, pag. 20-29)
²) Luca Telese – “Cuori neri” (Sperling & Kupfer 2006, pag. XI)
³) Pietro Calogero, Carlo Fumian, Michele Sartori – “Terrore rosso, dall’autonomia al partito armato” (Laterza 2010, cit. pag. 202)
Ti fa capire perchè il mondo dei mille distinguo non farà mai molta strada .Tra i famosi 33 ci sono molti che hanno capito che non spetta a Silvia Giralucci raccontare la Destra a Padova.E io sinceramente ne ho le …. piene di chi fa l’asceta o il segaiolo saccente. Durante il processo alle Br c’ero solo io ed i ragazzi del Fdg con le famiglie. Le persecuzioni della magistratura e le violenze le ho subite anch’io come molti altri che non si vantano dei tempi passati. Ecco perchè grazie allo stimolo di Silvia ci siamo messi a lavorare per riempire il vuoto lasciato dai professori…. maestrini e menestrelli.
Sul documentario ho già espresso il mio pensiero: “Sono rimasto scettico, un po’ deluso (sul fronte ‘destro’ abbiamo troppa fame di far uscire le nostre storie dall’oblio). Chi non ha vissuto quei tempi, attraverso questo film non potrà capire granchè di quegli anni e di quegli avvenimenti, sopratutto con l’ottica di chi stava a ‘destra’… Ma, presumo, che non fosse lo scopo di Silvia Giralucci.
Resta l’amarezza che per rendere omaggio alla memoria dei nostri Caduti (e sopratutto far conoscere le loro storie al grande pubblico) queste siano le rarissime occasioni che vengono concesse dai media nazionali… e Noi ci consoliamo dicendo: meglio di niente!!!” Proprio questo è il punto, Raffaele. Poco, molto, niente, tutto… Condivido il tuo sfogo, che è quello di chi in questa vicenda ha agito. Ma come non capire anche coloro che avrebbero immaginato (o sperato…) un maggiore sforzo della regista nel capire e descrivere i ‘camerati’ del suo papà, ucciso dalle Br solo perchè fascista…
Scusa Raffaele. Mi appello l mio diritto di 60nne affetto da rincoglionimento. Mi volete, per favore, spiegare qual’è il fine ultimo del documentario?
Si manca questa parte ma è una storia da scrivere assieme con sufficiente senso critico e precisione. Pensa che tutti i carteggi di quel processo furono bruciati dagli stessi 33 che per la stragrande maggioranza pensarono bene a darsi a vita privata e rifarsi una vita. Non mi sento di criticare loro tantomeno Silvia.
Lasciare un messaggio alle giovani generazioni… ma per Silvia capire e ritrovare suo papà
Le giovani generazioni hanno bisogno di essere prese per mano e guidate, io credo. Le giovani generazioni hanno bisogno, non di stimoli, ma di idee-forza. Le giovani generazioni hanno bisogno di miti e di identità. Raffaele, le giovani generazioni hanno bisogno di noi, alla fine.
Ma noi non credo che stiamo dando loro un bell’esempio…
Bravo.
I figli delle vittime non diventano, solo per essere orfani, intelligenti, competenti, obiettivi
Ha ragione Faber; chi non ha vissuto quei tempi non potra’ capire le dinamiche e le follie di quel periodo. Forse la regista doveva rimanere in quel cono d’ombra della mancanza affettiva del padre assassinato e non spingersi su un giudizio (ingeneroso) sui camerati che giustamente onoravano la memoria dei Caduti con il “Presente” e il saluto Romano. Io avrei fatto come loro.
La regista sembrava più indaffarata a cercare giustificazioni per le zecche di POTOP
Due anni fa, presentai il suo libro nel mio Irish Pub Doolin a Latina insieme a Roberta Di Casimirro. La notte, la riaccompagnai a Roma dove dormiva. Sulla porta del B&B, gli dissi: “Sono sempre stato attento alle ragioni degli altri. Ma alcuni di “quelli” ci vorranno sempre vedere morti. Devi sapere Silvia che sono cresciuto con tuo Padre, mi accompagna da quando è morto”. Oggi ho scritto, che non sono stato, solo, un ragazzo della via Paàl
Mi associo al 100% con quanto scritto dall’amico Augusto Grandi… 🙂
CONTRIBUTO DI SILVIA: “Mi fa piacere leggere quel che scrive Mario Bortoluzzi, perché finalmente riesco a capire in base a quali ragionamenti mi ha tolto il saluto diciamo un paio d’anno fa. E’ vero, dopo l’uscita del libro, abbiamo parlato molto, e mi ha raccontato come stavano le cose nel Fronte della Gioventù a Padova negli anni Settanta. L’ho ascoltato con molto interesse, ho capito molte cose, ma non è detto che queste dovessero entrare nel film. E’ vero, il film mi è costato quasi tre anni di lavoro, e a un certo punto, la mia idea iniziale di raccontare solo in 7 aprile è stata messa in crisi dal fatto che non potevo farlo ignorando completamente la mia storia personale. E’ vero, ho pensato per qualche mese di includere anche quel mondo, girando un’intervista a Michele Chiodi e progettando di girarne una a Mario. Ma poi, mettendo insieme questo “materiale” con quello che avevo già raccolto e girato mi sono resa conto che non c’entrava nulla. Quindi ho scartato l’intervista a Michele come anche altre che avevo realizzato ad altre persone. Non è bello, ma succede, succede quasi sempre nei documentari. Avrebbe potuto essere un film interessante, mio padre e la destra degli anni Settanta a Padova. Ma non era il film che volevo fare io. Tra l’altro, ero e rimango convinta che sarei la persona meno credibile per raccontare quell’ambiente. Per questo HO deciso di fare un passo indietro, tornare al progetto originario visto che quella era una strada senza uscita. Il produttore mi aveva semplicemente detto che prima di girare altre interviste voleva capire dove andava a parare la strada che avevo intrapreso e assieme abbiamo deciso che non andava in una direzione utile a chiudere un film su cui lavoravo da due anni e mezzo. Tutto questo è stato ben spiegato a Mario. L’intervista a Stefania: non ho mai avuto un dvd, ma solo dei file negli hard disco della produzione a Roma, anche questo gli è stato spiegato. Ma soprattutto: non è che io ho scelto la portavoce che rappresenta un mondo, anche se per voi è questo. io ho scelto una persona che mi piace, perché era vicina a mio padre e mi sembra vicina a me. questo film è sul MIO rapporto con gli anni settanta. Se volete altro, liberissimi. Ma non potete chiedere a me di esprimere cose che non sono nelle mie corde..”
SILVIA HA FATTO BENE PERCHE’ NE MB NE MC POSSONO INTERPRETARE TOUT COURT IL MONDO DELLA DESTRA A PADOVA. IO PROVENGO DALL’ESPERIENZA DELLA SEZIONE ARCELLA FATTA DI FIGLI DI OPERAI E DI GENTE CHE NON AVEVA FAMIGLIE BORGHESI ALLE SPALLE
Raffaele, acqua passata – e’ noto – non macina piu’. Siamo passati da un’atteggiamento di critica (rispettosissima di Silvia, del suo passato e del suo pensiero) di un documentario quasi agli insulti. Silvia ha cercato di capire le ragioni degli altri; noi abbiamo cercato di capire le ragioni di Silvia. Ma le nostre ragioni non stanno in quel documentario. E forse, ed e’ la cosa piu’ triste, non ci sta neanche suo padre. Meglio chiudere questa discussione. Cerchiamo piuttosto di essere noi a fare conoscere le nostre ragioni. Con, o senza, media.
Ci dobbiamo dare da fare
Certa gente dovrebbe lavarsi la bocca prima di parlare di Mario Bortoluzzi in certi termini. Anche perchè qualcuno con la presunta famiglia borghese alle spalle ha lavorato tutti i giorni della propria vita per mantenere la propria famiglia e qualcun’altro vive di politica da sempre. Con buona pace dei figli degli operai.
La vita mi ha insegnato che quel che conta sono i fatti. La credibilità delle persone, per me, si basa solo su quello che fanno e hanno fatto. Sull’esempio che hanno dato. Su quello che hanno perso per essere coerenti e fedeli ai propri ideali. Per questo sono cresciuto (non solo politicamente) nel profondo rispetto di chi, come Graziano Giralucci, ha pagato col prezzo più alto la propria militanza e di chi, come Silvia, ha vissuto la tragedia della perdita del padre, sforzandosi di cercare una risposta al vuoto che l’ha accompagnata per tanti anni. E per questo, per il valore dell’esempio e per il raro dono della coerenza, considero Mario Bortoluzzi uno dei pochi uomini del “nostro mondo” degno di stima.
Dopo aver letto con molta attenzione “L’inferno sono gli altri”, essermi confrontato di persona con l’Autrice e aver visto domenica sera il documentario “Sfiorando il Muro”, non posso che condividere al 100% l’articolo di Mario. Bravo MB!!!
Caro Faber, ci stiamo dando da fare per gli aiuti e i volontari. Ecco il popolo dei mille distinguo e dei mille miti. Tutti pronti a fare la morale e a dare a lezioni. Vivo del mio lavoro e mi impegno ancora solo per passione non ho il posto fisso e ciò che ho (poco) me lo sono guadagnato con il mio lavoro
Sinceramente non mi ha convinto il film di Silvia Giralucci, ho visto un’occhio di riguardo nei confronti di una sinistra violenta che ha fatto quello che voleva a Padova in quegli anni, poi le vittime risultavano essere, dal film, i poveri baroni del PCI, i sindacalisti che andavano ai cortei con i manici di piccone, mentre di una parte importante della società civile e politica padovana, la gente di destra, si parla solo per dire che avevano sviluppato delle tensioni in città….. poi le sproporzioni delle interviste è veramente imbarazzante…….. peccato un’occasione persa….
Rimango convinto che mentre il libro sia, come dici tu, sproporzionato e privo di riferimenti a ciò che ha rappresentato la organizzazione giovanile del MSI, il documentario sia stato volutamente incentrato sul 7aprile. Io ho detto a Silvia, assieme a chi ha partecipato al dibattito, il mio pensiero consapevole che la ricerca che stiamo facendo colmerà il vuoto di documentazione esistente. Anche nel nome di suo padre
Il libro non l’ho letto, parlavo del film…Padova no era solo il 7 aprile e suo Padre non è la vittima incidentale…… suo Padre faceva parte di una comunità forte e presente in città, che ha permesso a tutti quelli che non erano comunisti di esprimersi e di potere anche semplicemente comprare un giornale senza essere sprangato, o andare a scuola ed esprimere un parere diverso da quello imposto dai violenti, una comunità che ha resistito alle persecuzioni giudiziarie, alla violenza delle istituzioni che ci vietava con banalissimi motivi la possibilità di esprimerci, alla violenza degli sprangatori comunisti… una comunità ancora viva, anche se dissolta in mille rivoli….