Raccontare sessantott’anni di passioni, tensioni, idee, mentalità attraverso centinaia di microstorie e di biografie private non è cosa semplice. Se poi l’oggetto di studio è una città intricata come Trieste e, soprattutto, un segmento complesso come il neofascismo e/o il postfascismo giuliano il compito è decisamente complesso. Complimenti dunque a Pietro Comelli e Andrea Vezzà, due giovani ricercatori, autori di “Trieste a destra – Viaggio nelle idee diventate azione lontano da Roma” (Edizioni Il Murice, Trieste Pg 427 – Euro 22.00) che con perseveranza e libertà intellettuale hanno esplorato un’esperienza plurale, generosa, a volte contraddittoria ma certamente originale. A differenza delle vicende nazionali, a Trieste la “destra” (termine limitativo ma obbligato) ebbe molte espressioni, tanti volti, un percorso interno particolare e sempre intrecciato, riprendendo Marc Bloch, ad un “fondo permanente”: la tragedia del confine orientale.
Punto di partenza è il maggio 1945.
Mentre mezza Europa festeggiava la fine della guerra, la città venne occupata dalle truppe jugoslave. Il maresciallo Tito, forte dell’appoggio di Churchill, immaginava di spostare la frontiera sul Tagliamento o, ipotesi secondaria, sull’Isonzo e creare la “VII repubblica federale” jugoslava. Trieste — il grande emporio dell’impero asburgico, il simbolo del nazionalismo tricolore — era la preda più ambita. Per il capoluogo giuliano furono 40 giorni di terrore. Gli slavi comunisti arrestarono, deportarono, massacrarono migliaia di veri e presunti oppositori all’annessione: fascisti, nazionalisti, borghesi, antifascisti italiani e (dato trascurato dagli autori) centinaia d’anticomunisti serbi, croati e sloveni. Il 5 maggio un corteo spontaneo d’italiani venne disperso dai “liberatori” a colpi di mitra. Il bilancio fu pesante: 5 morti, decine di feriti. A giugno, con il benestare di Stalin — già diffidente verso il suo irrequieto discepolo balcanico —, le potenze occidentali imposero a Tito il ritiro da Trieste.
Il 12 giugno 1945 la città si trasformò in un’enclave anglo-sassone: un microstato artificiale, il Territorio Libero di Trieste. All’alba della “guerra fredda” la stramba entità divenne — come la Vienna del “Third Man” di Orson Wells o l’ex capitale del Reich di “Funeral in Berlin”— un perfetto scenario da “spy story”. Tra il Carso e l’Adriatico si scontrarono servizi yugoslavi, sovietici, italiani, inglesi e americani; ognuno con i propri terminali locali, ognuno con le proprie mire e obiettivi. Un confronto duro e — dopo la defezione nel 1948 di Tito dal blocco sovietico — terribilmente ambiguo: gli inglesi confermarono, fedeli alla loro linea anti italiana, l’appoggio a Belgrado e agli indipendentisti, gli statunitensi (in altre faccende — la Corea e la Germania — affaccendati …) scelsero per il mantenimento dello status quo postbellico, mentre i comunisti locali si spaccarono tra l’osservanza a Mosca (il PCI di Togliatti e Vidali) e la fedeltà alla Jugoslavia (l’elemento sloveno).
Per Roma — nel ’48 ormai saldamente degasperiana — la difesa dell’ultimo frammento della frontiera passava obbligatoriamente attraverso la mobilitazione dell’attivismo nazionalista. Da qui il sostegno (politico e anche militare, come confermano le testimonianze sul reclutamento di giovani e meno giovani nelle strutture parallele dell’esercito) del governo centrale ai militanti del MSI giuliano: i più coraggiosi e determinati nella difesa dell’italianità di Trieste. Come sottolineano Comelli e Vezzà, quella dei missini non fu una presenza marginale ma un elemento decisivo. Forte dell’apporto dell’ondata degli esuli istriani, fiumani e dalmati — un dato demografico che sconvolse la geografia politica cittadina — e dell’appoggio di un consistente segmento del proletariato urbano — i quartieri storici divennero la roccaforte dell’italianità —, la Fiamma locale (più nazionalista e irredentista che nostalgica, un altro dato su cui riflettere) fu protagonista della battaglia per Trieste.
Come ricordano gli autori, i “neofascisti” furono al centro di tutti gli scontri in piazza e nel novembre 1953 (un eccidio perpetrato dalla “polizia civile” del governatore britannico Thomas Winterton) i morti furono quasi tutti missini. Con il ritorno nel 1954 di Trieste all’Italia una stagione si chiuse ma gli equivoci non si sciolsero. Anzi si aggrovigliarono.
Un leader: Almerigo Grilz
All’indomani della “seconda redenzione” il MSI giuliano si ritrovò spiazzato. Nonostante il consistente consenso elettorale, i dirigenti locali faticarono a ritrovare un ruolo per il movimento. Il mesto epilogo del governo Tambroni, l’assorbimento assistenziale della diaspora istriana (un bacino elettorale e attivistico importante) e la deriva morotea (e antifascista) della Democrazia Cristiana, respinsero il MSI ai margini della politica giuliana. Negli anni Sessanta il dibattito interno alla Fiamma triestina si ridusse — dopo anni di scontri di piazza, rappresentatività e rapporti con strutture dello Stato — a conflittualità interne tra notabili (ormai esclusi dal potere locale), micro scissioni giovanili, suggestioni ordinoviste e ripiegamenti nostalgici. Non a caso nel 1966 il MSI non comprese e non s’impegnò — nonostante le pressioni della base — per la difesa dei cantieri navali giuliani: una battaglia sacrosanta contro una decisione sbagliata, podromica alla deindustrializzazione della città.
Sull’Adriatico settentrionale il 1968 arrivò in ritardo, ma fu devastante per i delicati equilibri cittadini. Dopo quasi due decenni di emarginazione, la sinistra comunista (nuovamente compatta) ritrovò uno spazio politico e conquistò l’egemonia nelle scuole, nelle poche industrie rimaste e all’università. Come sottolineano le interviste raccolte dagli autori la destra locale si ritrovò improvvisamente marginalizzata e assediata; il viale XX settembre — storico ritrovo giovanile — divenne la trincea degli anticomunisti e, sino al 1974, punto di coagulo degli attivisti di Avanguardia Nazionale, una realtà militante compatta e generosa.
La strage di Brescia segnò il “turning point” nelle vicende del piccolo mondo “destrista”. Sull’onda dell’indignazione per il massacro, il PCI mobilitò tutte le sue forze per cancellare ogni residua presenza avversaria sul territorio ma, per una bizzarra coincidenza, proprio all’indomani dell’assalto alle sedi e della “caccia al fascista” la destra triestina ritrovò una strategia vincente, degli obiettivi chiari e, soprattutto, un leader: Almerigo Grilz. Su “Ruga” — come lo chiamavamo in via Paduina — si detto e scritto molto. Talvolta a sproposito. Fortunatamente gli autori non si aggiungono alle “laudationes funebres” ma cercano invece di contestualizzare la figura di Almerigo nel suo tempo. Una scelta corretta che restituisce la complessità del personaggio e offre un visione autentica dell’esperienza e del momento. Nelle pagine di “Trieste a destra”, ritroviamo il ragazzo curioso, ironico e anticonformista che abbiamo conosciuto, l’intelligenza aperta e insofferente a dogmi, ghetti e provincialismi che ci affascinò, il Politico acuto, lucido e determinato che seguimmo con convinzione ed entusiasmo. Almerigo Grilz non fu solo e soltanto il leader di un gruppo giovanile di una città periferica. Anzi. Nell’arco di un decennio “Ruga” fu uno dei protagonisti centrali del faticoso processo di modernizzazione e rilancio della destra giovanile italiana. Trieste fu il suo laboratorio principale, ma le sue idee innovative, le sue visioni intellettualmente coraggiose “contagiarono” positivamente un intero segmento generazionale. Da Catania a Roma, da Padova a Milano. Purtroppo il partito degli “esuli in patria” — incardinato tra il culto del passato e un tranquillo cabotaggio parlamentare — non comprese, non valorizzò quel triestino irrequieto e troppo intelligente. Almirante e i suoi notabili preferirono affidare il mondo giovanile — e, in prospettiva, il futuro del piccolo mondo missino — a un pigro ma rassicurante giovanotto bolognese. I risultati sono noti.
Il prezzo della “lontananza”
Il 19 maggio 1987 Almerigo caddè in Mozambico. Filmando una battaglia. Fu il primo reporter di guerra italiano dopo il ‘45 a morire in azione. Per “L’Unità” divenne improvvisamente un “mercenario italiano”. Una menzogna velenosa, condivisa dall’Ordine dei giornalisti giuliano, a cui si opposero Gian Micalessin e Fausto Biloslavo — i suoi compagni di ventura — e tutto “l’ambiente”. Dopo una lunga battaglia, il 18 maggio 2002 il Comune di Trieste intitolò una strada a Grilz. Una piccola, importante vittoria.
Ma, come notano Comelli e Vezzà, il tempo politico di Almerigo si era interrotto ben prima di quel maledetto 19 maggio. Dal 1984 — per un insieme di motivi personali e professionali — Grilz iniziò a distaccarsi dalla politica e a dedicarsi con pieno successo al giornalismo di guerra. Trieste e l’Italia erano ormai il passato.
Con l’allontanarsi del suo “regista”, il MSI cercò nuove motivazioni nelle battaglie storiche: ancora una volta, l’anticomunismo, l’antislavismo, l’irredentismo; argomenti negli anni Ottanta ancora vincenti su scala locale, ma che, inevitabilmente, insterilirono l’antico laboratorio grilziano.
La stessa orgogliosa “diversità” triestina da Roma (e dal resto d’Italia) mutò negli anni significati e segni. Se negli anni Settanta via Paduina si voleva (ed era) un centro propulsore originale ed autonomo aperto al nuovo e rivolto al movimento, dalla fine degli Ottanta in poi la “lontananza” si fece chiusura localistica e alibi per gruppi dirigenti sempre meno adeguati. Da qui — soprattutto dopo la “svolta” di Fiuggi — la sfiducia o la diffidenza verso iniziative culturali di rilievo come l’esperienza degli universitari del Curc, la redazione de “Il Bargello”, l’associazione Novecento, l’ottimo Istituto Storico Panzarasa e la non valorizzazione d’energie intellettuali anticonformiste. Un’involuzione — va aggiunto — comune e trasversale a tutta la società politica giuliana (di destra, centro e sinistra), da anni priva di grandi disegni e ridotta ad un piccolo cabotaggio amministrativo senza luci e con tante ombre. È il riflesso di una città sofferente e sempre più anziana, periferica che (si veda il trentennale nodo del porto Vecchio) teme il nuovo. Purtroppo nel libro — un piccolo appunto agli autori, valido per la seconda edizione — la città e i suoi cambiamenti demografici e sociali rimangono sullo sfondo.
Un’ultima considerazione. Trieste è uno scenario apparentemente immobile ma, ogni volta che si manifesta una qualsiasi forma di protesta — Grillo ieri, i neo TLT forse domani —, è ancora capace di agitarsi penalizzando e condannando le forze tradizionali. Purtroppo, come confermano crudelmente gli ultimi dati elettorali, sono i vari segmenti in cui è frantumata l’ex Alleanza nazionale a pagare il prezzo più alto: la “specificità” si è trasformata in subalternità ad alleati ingombranti quanto opachi o è scivolata in ipotesi velleitarie e personalistiche. Per immaginare un futuro è tempo per la destra di ripartire dalle idee. E guardare oltre il Timavo.
Marco Valle
(da “Il Secolo d’Italia” – 3 luglio 2013)