Il problema dell’informazione è certamente una ‘sezione’ importante della più composita battaglia culturale, che ha l’obiettivo di opporsi al predominio del pensiero unico e del politicamente corretto. Inevitabili prodotti di una pluridecennale ‘egemonia’, ormai di potere più che culturale, che è stata scenario necessario per realizzare il controllo dell’informazione. A sua volta, fondamentale per la cultura dominante che ne ha fatto uno strumento efficace per l’omologazione.
Il controllo dei ‘media mainstream’ rende più facile influenzare l’opinione pubblica, promuovendo una determinata agenda politica, culturale ed economica, a spese della verità. Alcuni tra i migliori e più recenti esempi di questo scenario sono stati sia la gestione dell’informazione nei tempi della pandemia che la guerra in Ucraina. Perché, a prescindere da quali siano le singole posizioni, è innegabile che siamo immersi in una lunga stagione a senso unico, che arriva fino alla criminalizzazione del dissenso. Come è accaduto, per esempio, con le liste di proscrizione, pubblicate dal “Corriere della Sera”, dei presunti ‘putiniani’.
Recentemente è tornata alla ribalta la categoria del ’giornalista poliziotto’, ricordata da Alain de Benoist nel suo volume “La Nuova Censura” con la citazione di una frase, datata 1998, del sociologo e filosofo Pierre-Andrè Taguieff: “Da quando i giornalisti poliziotti tendono a sostituire gli intellettuali impegnati, la caccia all’eretico si è sostituita alla discussione critica e all’argomentazione polemica”. Elencando alcuni dei metodi utilizzati: “La diffamazione dolce e diluita, la denuncia virtuosa, la delazione benpensante”. Ovviamente, si riferiva alla Francia, ma la descrizione di questa categoria calza a pennello con la cronaca italiana, anche di queste ultime settimane, perché “il cacciatore di eretici non indaga, non discute, denuncia, bracca, mette in condizioni di non nuocere quelli che designa come criminali e nemici”.
Se è vero che i quotidiani attraversano un periodo di forte crisi, sia di diffusione che di credibilità, ciò nonostante svolgono ancora un ruolo di indirizzo nei confronti dell’élite politica, sociale ed economica italiana e le loro campagne mediatiche servono anche a compattare l’opinione pubblica di riferimento. Non altrettanto si può dire per la televisione, e ovviamente per la rete. La televisione è certamente l’elettrodomestico più diffuso, tanto da essere presente nel salotto di quasi tutte le famiglie italiane, perciò la sua funzione condizionante non è mai tramontata, seppure con l’avvento della rete abbia trovato agguerrita concorrenza, spartendosi le fasce anagrafiche di influenza. La televisione è uno strumento capace di creare una ‘dittatura dell’immagine’, dove il pensiero critico e la riflessione sono sempre più marginalizzati a vantaggio della spettacolarizzazione e di una comunicazione superficiale, facilitando così la creazione di alcune ‘stelle’ della politica (e del giornalismo) e condizionando la notorietà di alcuni personaggi. Fino a trasformare il dibattito politico e l’informazione in un semplice e banale intrattenimento.
Viviamo un’era nella quale l’accesso alle informazioni è diventato assai più facile, più diffuso e rapido, più accessibile per tutti, ma ciò non significa che la qualità delle informazioni sia migliorata, non sempre abbiamo a che fare con notizie accurate e corrette. Tutto ciò rende più grave l’incombere di un pesante totalitarismo dell’informazione con il controllo da parte dei gruppi dominanti, al fine di influenzare l’opinione pubblica e mantenere intatto il proprio potere, limitando la libertà di pensiero e di espressione.
L’avvento di Internet rappresentava una speranza per la libertà di informazione, che è risultata in buona parte tradita. Infatti, la rete è stata utilizzata soprattutto come arma decisiva per la ‘società della sorveglianza’, con una sempre più invadente e sconvolgente intrusione nella nostra vita privata e pesanti implicazioni sul sistema economico e sulle dinamiche del consenso. Uno strumento di controllo sociale perfezionato con l’avvento dei social media, che concentrati nelle mani di pochi e con uno strapotere smisurato, grazie anche alla possibilità di un monitoraggio costante, esercitano un’asfissiante potenza, a volte incompresa, nei confronti dei cittadini, fino alla censura del pensiero anticonformista o di qualsiasi pensiero che non sia in linea col politicamente corretto.
Un totalitarismo dell’informazione come manipolazione dei media per realizzare l’omogeneizzazione culturale attraverso vari mezzi, come la censura, la propaganda, la falsificazione e la manipolazione delle informazioni, la creazione di una narrazione univoca. L’omogeneizzazione culturale è una conseguenza, o meglio un obiettivo, della globalizzazione, che tutto confonde rendendo indistinte le identità e che mira a ridurre le diversità attraverso la divulgazione e la diffusione di simboli culturali, costumi, idee e valori, favorendo la creazione di un’opinione pubblica uniforme e condizionata. Togliendo punti di riferimento porta all’indebolimento delle identità e delle comunità locali, così da trasformare le culture locali e farle assorbire da una cultura esterna dominante, con un pesante impatto sull’identità e sulla cultura nazionale, erose dalle industrie culturali globali e dai media multinazionali.
L’informazione fornita dai ‘media mainstream’ consente una colonizzazione culturale che priva le persone della loro storia, della loro cultura, delle loro tradizioni, della loro identità, creando un mondo uniforme e anonimo nel quale le differenze culturali e identitarie vengono annullate. I media dominati dall’ideologia del ‘politicamente corretto’ promuovono valori e visioni del mondo omogenei, limitando la libertà di pensiero e di espressione, creando il ‘pensiero unico’. Il filosofo Michel Onfray, nel suo libro “Teoria della dittatura”, evidenzia che “quando l’intenzione è quella di privare un individuo della sua cultura sarà importante impedire qualsiasi cosa permetta di ragionare, riflettere, pensare…”. E descrive una parte della strategia: ridurre al minimo la lingua, impoverendola svuotandone i termini, spogliando le parole del loro senso, cancellando le sfumature, piegando la lingua all’oralità, così da ridurre il vocabolario e dar vita ad una neolingua politicamente corretta. Un linguaggio per i fanatici dell’ideologia che si impone per assuefazione e sta assoggettando le coscienze, impedendo di pensare liberamente. Onfray elenca sette fasi della nuova dittatura, alcune delle quali rappresentano le più evidenti e attuali tendenze del progressismo mondiale: impoverire la lingua e sopprimere la storia. Analogamente, De Benoist ricorda come il ‘politicamente corretto’ funzioni come “neolingua orwelliana: l’uso di parole capovolte nel loro senso, di termini traviati, di neologismi verosimili”, che “scaturisce dalla più classica delle tecniche di sbalordimento” perché “per disarmare il pensiero critico è necessario sbalordire le coscienze e rendere attoniti gli spiriti”, anche creando parole soavi su temi con forti implicazioni morali. Valga un esempio per tutti: “maternità surrogata” invece di “utero in affitto”.
Gli esempi della pandemia e della guerra confermano quanto sia necessario contrastare la propaganda e la manipolazione delle informazioni, anche attraverso l’educazione e la formazione, al fine di sviluppare il pensiero critico e la capacità di valutare in modo critico le fonti d’informazione. È necessario promuovere una cultura dell’identità e della diversità culturale con una forte critica all’omogeneizzazione culturale che ha partorito il politicamente corretto, con le sue varie ideologie condizionanti (dal gender allo schwa, passando per la cancel culture). Sarà decisivo favorire in maniera concreta (speriamo che la politica ne sia consapevole) un pluralismo delle idee contro il ‘pensiero unico’.
Per combattere questa composita battaglia culturale è assolutamente fondamentale creare spazi alternativi, come i festival che creano spazio per la ‘cultura non conformista’ e il ‘pensiero critico’. Ancor più oggi, in una stagione politica che appare nuova e crea qualche legittima aspettativa, con alcuni passaggi che sembrano andare in quella direzione, riequilibrando gli spazi dove si genera e si controlla l’informazione, aumentando e migliorando le voci in campo, promuovendo le competenze e incentivando la partecipazione attiva dei cittadini. Favorendo uno stretto rapporto tra l’accesso ad un’informazione libera e plurale e i diritti dei cittadini, si potrà consentire una consapevole partecipazione ai processi decisionali della vita politica, sociale ed economica della Nazione. Profetica ed eternamente valida una frase, scritta nel lontano 1958, dallo scrittore Aldous Huxley (nel suo libro “Ritorno al mondo nuovo”): “Solo chi è vigile può serbare le proprie libertà, solo quelli che stanno sempre all’erta, col cervello ben desto, possono sperare di governarsi con strumenti democratici”
Nuovo esempio di giornalista poliziotto (arcobaleno)
https://www.ilgiornale.it/news/attualit/diversity-editor-politicamente-corretto-si-abbatte-pure-sul-2169028.html
D’accordo. Ma chi ha attributi (se ancora ci sono) sarebbe ora che li mettesse in campo, sul serio, non metaforicamente, magari non solo con benemerite recensioni di altrui saggi… I pericoli e degenerazioni li vediamo tutti, sarebbe ora di vedere ‘scorrere il sangue’, a partire da un governicchio di centro-destra che imita uno di centro-sinistra…
Dovremmo controllare veramente la RAI, ma dalle menzogne, provocazioni, falsità con cui la sinistra si è sempre alimentata per galleggiare. Il governo dovrà farlo prestissimo, senza perdersi in chiacchiere, altrimenti soprattutto la Melone dovrà pentirsene..