A due passi dalla Festa di Atreju sono chiusi i Fori Imperiali che il nuovo inquilino del Campidoglio ha annunciato senza ambiguità di voler distruggere per cancellare le vestigia del passato e i ricordi delle grandezze mussoliniane. E non crediamo che intenda fermarsi lì. A pochi giorni dalla Festa di Atreju si attende la decisione volta a decapitare del suo leader la coalizione populista di centrodestra. Intanto vengono svenduti i nostri asset strategici. L’Ilva – che da sola è fonte dell’un per cento del nostro pil! – viene dismessa.
I suicidi non si contano più.
E il trio Napolitano-Boldrini-Kyenge si spertica per completare il piano Morgenthau di eliminazione di una Nazione con la sponsorizzazione dello Ius Soli, propagandato peraltro sulla base di una serie di mistificazioni e bugie.Il tutto viene condito da una sfilza di provvedimenti giuridici e disciplinari volti a colpire tutti i quadri indipendenti che hanno un posto nelle amministrazioni statali. E’ un bollettino di guerra: sembra di trovarsi a Beirut nel 1982.
Come se nulla fosse
E’ guerra ma ad Atreju sembra proprio che non se ne renda conto nessuno. Intendiamoci: non c’è alcuna eccezionalità nel sonnambulismo della festa. Abbiamo dovuto registrare come questa forma di alienazione adolescenziale sia comune a tutte le destre popolari (istituzionali e radicali) e abbiamo messo l’accento proprio su questo stato d’incoscienza che è caratterizzato dall’assenza dell’individuazione del nemico, di un progetto strategico e di una scuola quadri come l’hanno invece tutte le minoranze agenti (dai comunisti alle multinazionali). E’ guerra ma ad Atreju si parla come se nulla fosse, come se si facesse politica in quel quadro democratico fittizio, oggi sempre meno rispettato persino nelle forme, cui solo i postfascisti hanno dato e danno credito, ignorando come e dove si decide e come e dove si lotta. Con quale spirito e con quale mentalità. Atreju come qualsiasi altro luogo di destra radical/istituzionale è stata una kermesse, un guardiamoci, gaudeamus e diciamoci quanto siamo forti. Al primo bivio Fratelli d’Italia ha dato l’impressione di non sapere dove andare e di voler ripercorrere i passi di sempre: i suoi veri ideologi? Quelli di tutte le destre di oggi: Pavlov e Proust.
Quali prospettive?
Cinque mesi fa la troupe dei gabbiani (o forse oggi sono farfalle) ha giocato e vinto: ha sbancato. Ha travolto tutte le altre componenti ex-missine mettendo sul tavolo quello che vanta di proprio: una netta superiorità strutturale, militante e di comunità. Nel riposizionamento dopo l’esclusione dei candidati di an dal novero degli eleggibili nel pdl, il neonato Fratelli d’Italia ha disintegrato la Destra e le componenti di Destra Sociale, ha raccolto oltre seicentomila voti e, sfiorando il due per cento, ha portato una pattuglia a Montecitorio.
Come blitz niente male. Ma le prospettive?
Non entro qui nel merito delle scelte ideologiche o di Weltanschauung, ma faccio un ragionamento analitico puro e semplice. La scia può portare Fratelli d’Italia a fare il pienone delle componenti che ha sconfitto, ma quelle pattuglie di iscritti e clientes non si tradurranno in voti cospicui. L’avvenire del nuovo partito dipende da cosa farà di suo e di originale, perché se agisce per forza d’inerzia ha due prospettive davanti a sé. La prima è nella disintegrazione del centrodestra: in tal caso Fratelli d’Italia può aspirare a un 4-5% di cui vivacchiare in una sterile opposizione. La seconda è nel rilancio del centrodestra: in questa ipotesi il giovane partito può mantenersi sulle posizioni attuali e sperare di avere un minimo, ma proprio un minimo, di voce soffocata da trasmettere ai suoi alleati. La terza sarebbe di concepirsi come minoranza strategica, dall’aspetto e dal valore inscindibile. Non necessariamente come minoranza rivoluzionaria ma come minoranza unica, inimitabile e imprescindibile, come per esempio il partito repubblicano in Prima Repubblica.
La vergogna smarrita
Non sembra proprio che ci sia una seppur vaga tentazione di operare la scelta giusta. Fratelli d’Italia si ripropone, come tutte le componenti della destra postfascista, come portatore di valori impliciti ed intrinseci, talmente impliciti che se si domanda di cosa si tratti è difficile ottenere, lì come praticamente ovunque, altro che qualche concetto snocciolato a rosario, tipo Italia e famiglia. L’impressione è che, esattamente come nelle altre componenti politiche di tutto l’arco post e neo fascista, si agisca per automatismi e nella prospettiva unica di restare chiusi in se stessi. Né il viziaccio comune a tutti di mostrarsi “dialoganti” (perfino con Travaglio…) contraddice questa chiusura mentale perché è difficile individuarvi una strumentalità conquistatrice e non piuttosto la continuità di un complesso da cui non si è guariti, complesso per il quale si parla agli altri per ottenere patenti di rispettabilità. La chiusura della prima kermesse dei gabbiani appare rivelatrice.
Fa specie l’acquisto o anche solo il corteggiamento dei trombati, degli svincolati a costo zero, di gente che da come si è comportata, dal ridicolo in cui si è persa, dalle figuracce che ha fatto, dovrebbe solo sparire. Gente che se l’incontra un gatto nero cambia strada. Alla collezione del cimitero degli elefanti manca solo Gianfranco Fini che comunque rischia di giganteggiare nel paragone con i Giannino e gli Alemanno perché dopo il disastro che lo ha travolto, almeno ha avuto il buon gusto e la dignità di scomparire anziché fischiettare e ripresentarsi come se nulla fosse. Ma se poco è il coraggio rimasto, va detto che dalle parti del postfascismo e del neofascismo manca del tutto la vergogna. Smarrita, insieme all’anima.
Avete mai visto un formicaio morire?
Non so se avete mai visto morire una formicaio intero causa avvelenamento. Mi è capitato da ragazzo, in campeggio, quando, prima di montare la tenda, il padre di un mio amico sparse il veleno. Le formiche, impazzite, uscirono tutte dal loro formicaio e cercarono istintivamente di sopravvivere all’aperto, ripetendo i meccanismi conosciuti. Simularono dei formicai ipotetici all’aria, astratti, impossibili, per assecondare i propri automatismi animali, come se fossero inconsce di essere state avvelenate e di avere i minuti contati. Poi morirono agonizzando. Da quando han perso la leadership – diretta o indiretta – di Berlusconi tutti i postfascisti, non meno dei neofascisti, ricordano le formiche impazzite. Sembrano in competizione interna per la ricostruzione del formicaio in cui perpetuare i rituali cui sono abituati: rituali di comitiva (pardon di comunità…) che di politico hanno il cemento che li unisce ma poco o niente di quel che fanno. Occupazione di spazi esclusa (quando c’è e dove c’è). Non mi sembra che Fratelli d’Italia, malgrado abbia una marcia in più rispetto a tutti i suoi concorrenti d’area, si stia comportando altrimenti dalle formiche impazzite e avvelenate. Diversamente non corteggerebbe le cariatidi impresentabili né si farebbe sbeffeggiare dal distruttore dei Fori Imperiali accettando il suo insulto: “c’è bisogno di una destra come voi”. Parole che pronunciate da quelle labbra, a persone lucide e consapevoli, dovrebbero dettare l’impulso di grattarsi i coglioni o di partirgli con un diretto in faccia.
Intanto lì fuori…
L’appello finale della Meloni non è privo d’interesse. “L’obiettivo che ci siamo dati è dare una casa ai tanti esuli della politica che hanno smesso di crederci. Basta tatticismi e pragmatismi torniamo alla vera essenza della politica. Per noi i partiti non sono il fine ma uno strumento. Io credo in un movimento popolare forte, conservatore nei valori ma rivoluzionario. Basta con la deriva oligarchica dei partiti”. E’ interessante ma scompare smentito dagli abbracci di Marino, le chiacchierate di Travaglio, la riesumazione di Alemanno: sembra la solita astrazione neofascista tramite la quale si confondono le intenzioni con i fatti e si fa finta di vivere secondo le intenzioni annunciate e non secondo i fatti concreti. Al primo bivio Fratelli d’Italia inquieta: malgrado sia uno dei rarissimi soggetti che avrebbe la potenzialità per ben altre cose, mostra autocompiacimento e riflessi condizionati – esattamente come tutto ciò che viene dal postfascismo – e dà l’impressione di non avere lucidità. Di non aver compreso il momento drammatico e tragico che vive l’Italia e , in particolare, chiunque – antropologicamente e a prescindere da come si esprima – sia considerato populista o fascista. Non sembra che ci sia la consapevolezza che il formicaio è stato avvelenato e che le formiche agonizzano. L’uomo ha, tra le altre caratteristiche, quella di saper adattare la sua intelligenza all’ambiente che muta. Ma se continua a comportarsi da formica morrà. E il brutto è che lo farà non solo mostrandosi stupido ma anche senza dignità se continuerà a sorridere a gente come Marino o Travaglio che è coinvolta attivamente nel Piano di eliminazione della nostra Nazione. Contro questa gente, che non è avversaria o rivale ma che è nemica dichiarata perché passa i suoi minuti di vita a combatterci per eliminarci, serve lucidità, serve strategia, serve scuola politica, serve impersonalità, serve il rifiuto dell’autocompiacimento e dell’autocelebrazione. Ma soprattutto servono cattiveria, virilità e furor bellico. Si cercano, un po’ ovunque, non solo lì. Per non morire come le formiche.
Intanto, fuori da Atreju, si continuano a distruggere i Fori Imperiali. Qualcuno, di fronte, i coglioni e la cattiveria ce li ha.
Gabriele Adinolfi
(da “Facebook” – 15 luglio 2013)