Tra tanta retorica a buon mercato (ed un uso strumentale della Storia) sembra sempre di essere all’Anno zero rispetto alla necessità di “fare i conti” con il Ventennio e con le vicende legate alla Guerra Civile (1943-1945). E non è proprio un bene. Mentre dilaga una pubblicistica faziosa, impegnata a mischiare attualità politica e memoria, a venire meno sono infatti le basi stesse della ricerca storiografica, a partire dai fatti e dai documenti. Il che – sia chiaro – non esclude analisi complesse e domande di fondo, anche polemiche, laddove storicamente motivate, come ha insegnato a fare Renzo De Felice, impegnato “a capire il fascismo anche se qualcuno obbietta che così c’è il rischio di capirlo troppo”. E’ quanto tenta di fare, continuando una ricerca pluridecennale, Gianni Oliva, con il suo recente “45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio”. Oliva – va subito specificato, a scanso di equivoci – è tutt’altro che un “nostalgico”, avendo trascorsi politici “a sinistra”, anche con incarichi istituzionali, dal Pci al Pds, al Pd. Nel contempo però è stato insegnante e preside di scuola superiore ed oggi è docente di Storia delle istituzioni militari. Ciò che più conta è che ha al suo attivo diversi saggi sul fascismo tutt’altro che banali, in rapporto al biennio 1943-1945. Tra questi L’alibi della Resistenza. Ovvero come abbiamo vinto la seconda guerra mondiale (2003) e Le tre Italie del 1943. Chi ha veramente combattuto la guerra civile (2004). Tesi di fondo di questi due libri l’idea di una Resistenza sostanzialmente divisa e “divisiva” (nella misura in cui non fu l’esperienza di tutti gli italiani, sia perché non ha coinvolto l’intero territorio nazionale, sia perché ha convissuto con una realtà di segno opposto, la Rsi) e di un confronto non solo tra fascisti ed antifascisti (tra “continuità” e “rottura”) ma anche con una vasta “zona grigia”, quella della maggioranza attendista, che non ha voluto compromettersi con nessuna delle parti in lotta, sperando solo nell’arrivo degli Alleati.
In continuità con questo filone di ricerca Oliva, in 45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio, allarga il suo campo d’azione, inserendo ulteriori spunti di analisi, di ricostruzione storica e di polemica. A partire da una guerra persa, che fingiamo di avere vinta, per arrivare ad una epurazione mancata, in ragione del fatto che per eliminare una classe dirigente (fascista) bisognava averne un’altra a disposizione: impresa impossibile nella misura in cui pressoché tutto e tutti erano stati fascisti. Oliva – su questa linea – inanella una serie di esempi emblematici, ma non isolati, che ci riconsegna l’immagine di un Paese di “riciclati”, senza pudore. Esemplare tra questi il caso di Gaetano Azzariti, che da presidente del Tribunale della Razza (dal 1939 al 1943) diventa, nel 1957, presidente della Corte Costituzionale, sostanzialmente il garante giuridico dell’Italia neo repubblicana. Ancora più paradossale è che sia il comunista Palmiro Togliatti, ministro di Grazia e Giustizia, tra il 1945 ed il 1946, nei governi Parri e De Gasperi a fare di Azzariti un suo giurista di fiducia, confermandolo alla guida dell’Ufficio legislativo del ministero, e apprezzandone la competenza e l’obbedienza: “Per gestire la ricostruzione amministrativa, terminare in fretta la stagione dell’epurazione e chiudere la latente guerra civile – dichiara un pragmatico Togliatti – occorre affidare le chiavi della macchina a chi la conosce meglio”.
Quello di Azzariti è l’esempio più vistoso di un fenomeno diffuso che tocca non solo la magistratura ma i più vasti apparati pubblici e di polizia. Oliva fa nomi e cognomi, dettaglia le carriere, evidenziando le “contraddizioni” di un’Italia che, anche con il passaggio al Governo Badoglio, è orientata alla politica del “doppio binario”: massima severità negli annunci (di epurazione) minima applicazione nella pratica e conservazione dei vecchi apparati. Quali le ragioni di questo sostanziale “continuismo” ? “Di fatto – nota Oliva – il nodo dei conti con il passato si rivela inestricabile, perché deve ricorrere ad amnesie, a enfatizzazioni, a rimozioni, ad alibi: con il risultato che il suo peso si trasmette sino ai giorni nostri, riflettendosi in diatribe politiche fuori tempo e nella debolezza del senso di apparenza comune. Il passato che non passa”.
Questa “debolezza” passa inevitabilmente attraverso gli “anni del consenso” verso il Regime, sostenuto dalla collaborazione (consapevole o supina poco importa) di un’intera classe dirigente (emblematico, nel 1931-1932, il caso del giuramento dei professori universitari: su 1848 cattedratici solo dodici rifiutano di prestare il giuramento richiesto dal Regime). Le cifre che emergono dall’attività del Tribunale speciale per la difesa dello Stato documentano – d’altro canto – le dimensioni reali dell’antifascismo clandestino: dalla sua costituzione, l’1 febbraio 1927, al suo scioglimento il 25 luglio 1943, il Tribunale speciale processa 5619 imputati, condannandone 4569. E’ la conferma di ciò che De Felice scriveva a proposito degli “anni del consenso”, segno dell’accettazione del “modello morale” del fascismo presso la più vasta opinione pubblica, non suscitando nei più contrasto tra il pubblico e il privato.
Questa “accettazione” non potrà non riverberarsi sulle scelte degli italiani nelle settimane seguenti l’8 settembre, allorquando – come nota Oliva – “l’Italia sconfitta non reagisce e non pensa alla ribellione, ma si rifugia nell’attesa dei liberatori anglo-americani”. Di questi “orientamenti” fa fede una ricca pubblicistica di marca antifascista: da Pietro Nenni (che parla di “capitolazione che ha tolto l’iniziativa alla nazione”) a Leo Valiani (per il quale “le avanguardie sono molto, molto sottili e non hanno collegamenti con la massa che pretendono di rappresentare”); da Corrado Alvaro (sferzante verso gli italiani abituati ad “avere un atteggiamento da spettatori, ad ammirare il più forte, il più ricco e, in mancanza, il più furbo”) a Piero Calamandrei(“Ce la prendiamo con gli inglesi che vanno lenti, ma noi che facciamo ? Eterna psicologia italiana che aspetta dagli stranieri la salvezza”). Per non parlare della letteratura in materia, ben declinata da Oliva, che (attraverso le opere di Italo Calvino, Mario Tobino, Cesare Pavese, Beppe Fenoglio, Curzio Malaparte) propone, senza compiacimenti celebrativi, il disincanto amaro verso gli italiani di tanti intellettuali antifascisti.
Non stupisce, in questo contesto di smarrimento morale e politico, seguito all’armistizio, che anche i dati relativi a quanti si schierarono tra le file della Resistenza e a quanti aderirono alla Repubblica Sociale ci consegnino la fotografia di un’Italia fatta di minoranze (secondo Virgilio Ilari – citato da Oliva – 174.685 combattenti partigiani al Nord e 573.000 soldati arruolati nelle forze armate della Rsi), le quali – parole dell’autore di 45 milioni di antifascisti. Il voltafaccia di una nazione che non ha fatto i conti con il Ventennio – “non incidono percentualmente in modo significativo sul totale della popolazione italiana”. Tra partigiani e combattenti della Rsi è piuttosto la cosiddetta “zona grigia dell’astensione” a tenere ancora il campo, dando ai più un lasciapassare per il dopo, ed esonerandoli, nel contempo, a fare i conti con il Regime. Con il risultato che – come ha scritto lo storico liberale Rosario Romeo (voce “Nazione”, in Enciclopedia del Novecento, Istituto dell’Enciclopedia Italiana, 1979) – “la Resistenza, opera di una minoranza, è stata usata dalla maggioranza degli italiani per sentirsi esonerati dal dovere di fare fino in fondo i conti con il passato”.
Il risultato è che a quasi ottant’anni da quei fatti, tra tante finzioni e doppiogiochismi, molto c’è da fare per realizzare una corretta e condivisa memoria collettiva, mentre pesano ancora su tutti noi, su tutti gli italiani, le sferzanti parole di Winston Churchill, poste in premessa del suo libro da Gianni Oliva: “In Italia sino al 25 luglio c’erano 45 milioni di fascisti; dal giorno dopo, 45 milioni di antifascisti. Ma non mi risulta che l’Italia abbia 90 milioni di abitanti”. Al di là di ogni interpretazione parziale solo quando riusciremo a leggere la nostra Storia senza alibi di parte e palesi fraintendimenti, saremo in grado di rispondere al quesito di Churchill e a guardarci in faccia, per fare finalmente, tutti insieme, i conti con il passato, “liberando” il nostro presente da strumentalizzazioni e manipolazioni di parte.
Mario Bozzi Sentieri (“Barbadillo” del 24 aprile 2024)