Servono a qualcosa, al governo Berlusconi, i ministeri dell’Istruzione e della Cultura? La domanda non è paradossale. Vuol significare semplicemente questo: retorica a parte, la destra italiana pensa di avere in quei ministeri, in quegli ambiti, un particolare, specifico, interesse politico o no? Pensa cioè che al suo programma e alla sua identità l’Istruzione e la Cultura possano contribuire in qualche modo o no? Ancora: ritiene la destra italiana che Istruzione e Cultura abbiano un qualche rilievo strategico nel futuro del Paese oppure no? È difficile dare una risposta. So però perché ha senso porsi queste domande. Il motivo è che l’Italia di oggi appare un Paese inerte. Il fatto che da quindici anni, come scriveva domenica Francesco Giavazzi, non cresca il reddito reale medio è in certo senso solo la conseguenza ultima di qualcosa di più profondo. L’inerzia italiana non è nella sostanza economica. È piuttosto il venir meno di un’energia interiore, il perdersi del senso e delle ragioni del nostro stare insieme come Paese, delle speranze che dovrebbero tenere legato il primo alle seconde. È un lento ripiegare su noi stessi, un’incertezza che ci ha fatto deporre progressivamente ogni ambizione, ogni progetto. È l’invecchiamento di una popolazione che da anni non cresce; la consapevolezza deprimente che da anni siamo fermi, non facciamo, non creiamo, non costruiamo nulla d’importante, così come non risolviamo nessuno dei problemi che ci affliggono. È la sensazione che il Paese non ha più né un baricentro né una meta. Ed è la sensazione che nel frattempo le differenze sociali, culturali e quindi geografiche tra le varie parti della penisola si stanno approfondendo; che tutti i legami vanno allentandosi: tra le persone come all’ interno delle famiglie e con le istituzioni. È la percezione impalpabile che ci stiamo allontanando pian piano dal centro della corrente: come se la storia contrastata ma viva, fertile e felice, della Prima Repubblica fosse giunta al capolinea, e non riuscisse a cominciarne nessun’altra. A un Paese così è necessaria una scossa. L’ Italia ha oggi bisogno di riprendere il filo della sua vicenda in quanto nazione, di riscoprire il senso e le molte vocazioni della sua identità, di riacquistare in questo modo fiducia in se stessa. In teoria non si potrebbe immaginare un compito più alto e più tipicamente proprio della politica. Peccato però che la destra non sembri avere alcuna consapevolezza di tutto ciò. Il «rialzati Italia» della sua campagna elettorale, infatti, non è mai uscito da una dimensione per così dire economicistica, nella sostanza non è mai stato altro che un’arma polemica contro la linea Visco-Padoa-Schioppa. Finora, insomma, e fatta salva l’adesione più o meno formale ad alcuni punti della morale cattolica e ad un generico patriottismo, la destra di governo ha mostrato una singolare timidezza/indifferenza a muoversi sul terreno delle questioni ideali, dei valori individuali e collettivi, delle prospettive storico-identitarie. Finora essa non ha mai voluto parlare al Paese parlando del Paese. Ma stare al governo può far capire molte cose. Può far capire per esempio che proprio il momento straordinario che stiamo vivendo e le necessità che esso pone sono fatti apposta per attribuire all’ Istruzione e alla Cultura (che poi vuol dire inevitabilmente ai due rispettivi ministeri) un grande compito politico: non certo quello di stabilire nuove, impossibili egemonie alternative alla sinistra, bensì quello appunto di rianimare il Paese tutto, di aiutarlo a riannodare il filo della sua storia, e dunque a ritrovare senso e identità, alla fine fiducia in se stesso. Istruzione e Cultura, infatti, hanno a che fare nella loro essenza con il Sapere, il Passato e la Bellezza, cioè con il cuore dell’identità italiana. Sapere, Passato e Bellezza rappresentano le tre grandi prospettive che da sempre caratterizzano e per più versi racchiudono l’ intera nostra vicenda, le tre prospettive che da secoli sono valse a mantenere questa piccola penisola mediterranea al centro dell’ attenzione del mondo, portando il nome italiano oltre ogni confine. Sappiamo bene l’uso insopportabilmente retorico che tante volte di quelle tre parole si è fatto, ma ciò non toglie che è proprio da esse che possiamo, e in certo senso dobbiamo, ripartire. L’Italia esiste, infatti, ha una compattezza identitaria e civile che adeguatamente sollecitata è capace di diventare lavoro, impegno, industriosità, fantasia di costruzioni istituzionali e sociali, solo in forza del legame che riesce a mantenere con quel cuore della sua storia. Ciò che la tiene insieme e la sua anima sono lì: nel Sapere, nel Passato, nella Bellezza. Il conoscere, il portare a sé il mondo e ripensarlo dentro di sé, che ha rappresentato lo strumento costante della multiforme crescita delle nostre collettività; e poi il rapporto con l’Antichità, con le origini classiche e cristiane, che continua ad essere per noi non solo fonte di un prestigio planetario ma anche motivo non estinguibile di autoriconoscimento, di una pietas del Ricordare e del Custodire in cui si riassume un tratto universale di civiltà; e infine la singolare vocazione italiana all’invenzione e all’armonia delle forme che, a partire dal paesaggio e dai mille modi della quotidianità, si è riversata poi in una vicenda artistica immensa: quanto ci piacerebbe che i nostri ministri dell’Istruzione e della Cultura ricordassero al Paese queste cose! Quanto ci piacerebbe che se ne ricordassero essi per primi quando si tratta di organizzare la scuola, l’università, i musei, la tutela del nostro patrimonio culturale, superando i mille inciampi burocratici di ogni giorno! Quanto ci piacerebbe, soprattutto, che essi riuscissero a parlare al Paese per l’appunto mettendo il Sapere, il Passato e la Bellezza al centro di un alto discorso politico rivolto al futuro della collettività nazionale! Forse essi non sospettano neppure l’ascolto che potrebbero ottenere. Forse la politica, questa triste generazione politica a cui è toccato in sorte di governare l’Italia disanimata attuale, neppure immagina le energie che essa potrebbe suscitare solo che sapesse trovare le parole, le immagini e le idee giuste! Una cosa è certa: chi in un modo o nell’altro vive negli ambiti istituzionalmente affidati all’Istruzione e alla Cultura non ne può più di doversi regolarmente presentare con il cappello in mano al ministro del Tesoro di turno, di essere sempre costretto a disquisire di «tagli», di organici, di soldi. Vorremmo una buona volta poter parlare, e sentir parlare, d’altro. Del nostro Paese, per l’appunto: del suo e del nostro avvenire.
Ernesto Galli Della Loggia
(da “Il Corriere della sera” – 22 luglio 2008)
La cultura come risorsa:
una risposta (precaria) a Ernesto Galli della Loggia
«Servono a qualcosa, al governo Berlusconi, i ministeri dell’Istruzione e della Cultura?».
Con questa (allarmata) domanda, professor Della Loggia, Lei iniziava il Suo intervento La cultura come risorsa pubblicato dal «Corriere della Sera» dello scorso 22 luglio, poi commentato dal neo-ministro della Cultura Sandro Bondi e del suo corrispettivo-ombra Vincenzo Cerami.
Ho troppa stima di Lei (e spero anche abbastanza intelligenza) per capire che quel Suo scritto – cautelosissimo e dai toni accorati – doveva avere come fine quello di tentare di risvegliare la classe politica attualmente al governo dell’Italia dalla follia dei tagli omicidi approntati in Finanziaria per la Scuola, l’Università e la Ricerca.
Ciò che però mi riesce difficile (anzi impossibile) capire del Suo scritto sono – oltre alla scelta del governo come destinatario – i presupposti e i concetti su cui si fonda. Proverò a spiegare perché.
La Sua domanda «servono a qualcosa, al governo Berlusconi, i ministeri dell’Istruzione e della Cultura?» non è, come Lei paventa, «paradossale», ma – evidentemente – assurda e insieme retorica.
È assurda perché la cultura – quando c’è, quando vive – non ha bisogno di alcun patrocinio della propria irriducibile necessità. E un Paese che è costretto a porsi una domanda come questa sulle pagine del suo quotidiano più letto sta già fornendo, mi sembra, la più esplicita e inequivocabile delle risposte possibili.
Ma la Sua domanda è anche retorica, poiché viene rivolta a chi detiene oggi il potere in Italia, come se la necessità – effettivamente contingente nell’Italia di oggi – di domandarsi «la cultura serve?» non affondasse le sue radici proprio nel tenore (nonché nelle intenzioni, dichiarate o taciute) della visione del mondo e delle finalità politiche di chi detiene oggi il potere in Italia.
Ciò che però trovo francamente offensivo nel Suo intervento è il mondo in cui Lei guarda (o forse vede) il Paese, attribuendone lo sfascio a una presunta, mortale «inerzia» degli Italiani.
Le chiedo: siamo proprio sicuri che sia una colpa del Paese – e non, come sembra invece evidente, di chi lo ha dissennatamente governato sin qui – se siamo oggi costretti (e ridotti) a porci domande assurde e retoriche?
Soprattutto, siamo sicuri che il fatto (innegabile) che da quindici anni in Italia non cresca non solo il reddito reale medio, ma qualunque cosa sia viva e pulita sia imputabile a ciò che Lei chiama «il venir meno di un’energia interiore, il perdersi del senso e delle ragioni del nostro stare insieme come Paese, delle speranze che dovrebbero tenere legato il primo alle seconde», e non sia invece l’effetto – calcolato e inevitabile – della grande truffa perpetrata ai danni di questo Paese da chi ha attuato ogni mezzo (lecito ed illecito) perché «l’energia interiore» si spegnesse, «il senso e le ragioni del nostro stare insieme come Paese» si perdessero e ogni speranza morisse assassinata?
Non so in quale Italia Lei viva, ma è certo un’Italia molto diversa da quella in cui vivo e ho vissuto io. In questi ultimi quindici anni intorno a me (e alle persone come me, che sono milioni) io non ho visto alcun «lento ripiegare su noi stessi», né alcuna «incertezza che ci ha fatto deporre progressivamente ogni ambizione, ogni progetto».
Ciò che ho visto (e vissuto) io, al contrario, è un impegno senza precedenti – profuso con entusiasmo e coraggio anche e soprattutto dalla mia generazione – che rende oggi intollerabile a tutti coloro che lo hanno profuso (e, ripeto, sono milioni) l’idea che esso si sia rivelato inane perché sistematicamente annientato nei suoi risultati, contro ogni logica e ogni senso di responsabilità, da qualcuno che così ha voluto.
A differenza di Lei, cioè, io non vedo da quindici anni intorno a me un Paese «inerte», ma – semmai – la parte attiva e «non inerte» di questo Paese sottoposta ad un massacro psicologico (prima e oltre che economico) e a una ghettizzazione – rimozione? – che non ha precedenti nella storia: non di «questa piccola penisola mediterranea» che fu fino a ieri «al centro dell’attenzione del mondo», ma, appunto, in tutta la storia del mondo. Quel mondo – grandissimo – che sta al di fuori di «questa piccola penisola mediterranea» e che, nel frattempo, non si è ostinato a difendere con furore e contro il proprio futuro i privilegi acquisiti (e quasi sempre immeritati, oltre che eccessivi) di una sola parte di sé. Quella di una classe (politica, ma anche generazionale) che, con l’ardire di opporsi nientemeno che alle leggi di natura, si è resa inamovibile e che aspirerebbe ad essere (anzi ormai sembra ritenersi) sempiterna.
E poi Lei si domanda, caro Professore, come mai siamo un «Paese stagnante» da quindici anni? Provi a rileggere la Sua risposta alla domanda che Lei stesso, non senza una certa arditezza, si pone: forse lo capirà.
Io, per me, sono una ricercatrice universitaria e da più di dieci anni insegno a scuola e all’Università. Per pure ragioni anagrafiche, che in nessun modo concernono i miei titoli, le mie competenze e il mio impegno, sono, come milioni di persone, una precaria: vuol dire che da più di dieci anni svolgo la mia professione a tutti gli effetti senza nessuna «inerzia», ma socialmente (ed economicamente) non esisto.
Ciò – tradotto in termini concreti – significa che mi sono stati regolarmente negati non solo tutti i diritti che mi sarebbero spettati in virtù dei miei titoli, delle mie competenze e del mio impegno, ma – in un crescendo che è giunto infine all’epilogo – persino i più elementari diritti di individuo.
Sono per questo, come tutti coloro che si trovano nelle mie condizioni, un’«inerte»?
Piuttosto – mi sembra innegabile – sono (purtroppo non sola) la vittima di quindici anni di folle dissennatezza e immorale paralisi governativa, cui ultimamente pare essersi sostituita, con esiti davvero poco incoraggianti, la tendenza attivistica al libero sfascio.
Alla medesima dissennatezza e «inerzia» va ascritto – è indubitabile – l’increscioso fatto che il mio lavoro (cresciuto negli anni in quantità e quantità) sia stato (quando e se retribuito) economicamente quantificato in maniera a dir poco umiliante.
È così un dato di fatto che il mio reddito – fattore concorrente a definire la «media» di quello nazionale – sia cresciuto (ammetterà in modo un po’ bizzarro) in senso inversamente proporzionale alla crescita del suo reale coefficiente di produttività.
Poiché intorno a me ho visto negli ultimi quindici anni un’Italia non solo «non inerte», ma quanto mai attiva – prima con entusiasmo e speranza, ora semplicemente per necessità e per bisogno, talvolta per disperazione -, mi chiedo (e Le chiedo) se non sia lecito pensare che il Paese sia stato frodato negli ultimi quindici anni in modi e misure che non hanno precedenti. E che prima o poi – credo presto – questo Paese presenterà il conto a chi quella truffa ha organizzato e perpetrato, non so se con maggiore follia, corruzione o insipienza.
«Retorica a parte» recitava il Suo intervento «la destra italiana pensa […] che al suo programma e alla sua identità l’Istruzione e la Cultura possano contribuire in qualche modo o no? Ritiene che Istruzione e Cultura abbiano un qualche rilievo strategico nel futuro del Paese oppure no?». Mi sembra evidente che la scelta di accorpare il Ministero dell’Università e della Ricerca e il Ministero dell’Istruzione, come previsto dall’attuale governo al suo insediamento, sia di per se stessa una risposta eloquente alla domanda. Altrettanto eloquente mi sembra la decisione, presa dall’attuale governo cui Lei rivolge il Suo appello accorato e amletici interrogativi, di assegnare tale Ministero unico a Mariastella Gelmini che, in appena tre mesi, ha legiferato abbastanza da compromettere definitivamente ogni futuro possibile di scuola, Università e Ricerca attraverso il DL 112 del 25/06/08, fintamente ritoccato (dopo l’inevitabili e universa constatazione che si tratta di un intervento omicida e suicida) dall’altrettanto pasticciato provvedimento di conversione AS 949. Della cui legittimità e opportunità «strategica» mi pare accertino la decisione del governo di apporvi la fiducia e di farlo approvare alla chetichella dalla Camera il 24 luglio senza che nessuno dei mezzi di «informazione» si prendesse il disturbo di informarcene.
I fatti confermano, insomma, il sospetto da Lei avanzato, Professor Della Loggia, che – posta alla guida di settori altrimenti riconosciuti come «strategici», oltre che da tutti i Paesi civili del mondo, dalla semplice evidenza della realtà – il Ministro Gelmini non solo «non sospetti neppure l’ascolto che potrebbe ottenere» parlando alla Nazione di Sapere, Bellezza e Passato, ma, anche volendolo, assai difficilmente potrebbe «mettere il Sapere, il Passato e la Bellezza al centro» di un suo «alto discorso politico rivolto al futuro della collettività nazionale».
Come vede, caro Professore, la risposta alla domanda che Lei pone non è affatto «difficile». È, anzi, di una rara facilità.
Non c’è dubbio che, come Lei scrive, «l’inerzia italiana non è nella sostanza economica» e che il Paese sia afflitto dalla paralisi («da anni siamo fermi, non facciamo, non creiamo, non costruiamo nulla d’importante, così come non risolviamo nessuno dei problemi che ci affliggono»). Ma – Le chiedo – non sarà forse che «l’invecchiamento di una popolazione che da anni non cresce» non sia invece l’esito inevitabile dell’«invecchiamento» di chi pretende di governare questo Paese in eterno, occupandone – nonché la stanza dei bottoni – le infinite camerette e camarille?
«L’inerzia» – per dire altrimenti – non sarà nell’occhio che guarda anziché nella realtà – vivissima ma tragicamente paralizzata – che dinnanzi a quell’occhio appannato si distende così nebulosamente da risultare indecifrabile?
Io ci sono, Professore, anche se Lei non mi vede. Ci sono e ci sono sempre stata in tutti questi ultimi quindici anni: attivissima, e viva più che mai, Le assicuro.
C’ero, in questi quindici anni, a fare ricerca e a lavorare senza alcuna «inerzia» benché pagata con «borse di studio» che non mi bastavano nemmeno, nonché a fare ricerca, a vivere.
C’ero e ci sono anche adesso, seppure – a riconoscimento di quindici anni di lavoro – non bastasse il precariato subìto, mi si condanni a un «precariato a vita».
C’ero e ci sono ancora, come c’erano (e spero ancora ci siano) tutti coloro che ogni mattina – sfidando riforme su riforme della Scuola, dell’Università e della Ricerca schizofreniche, ma comunque dannose e coerenti nei tagli sempre più drastici – si sono fatti carico di non far morire, nonostante tutto, il Passato, il Sapere, la Bellezza.
Nonostante tutto – nonostante Voi? – noi non siamo morti, per fortuna.
Ecco perché non c’è alcun bisogno di crearci oggi, come sembrerebbe Sua intenzione, in laboratorio (ne resterà in piedi qualcuno, magari anche libero dai potentati?), né di produrci oggi (frettolosamente e magari in serie) ripescando qualche incalco nel frattempo mandato in rovina per incuria, in una tardiva resipiscenza vitalistica persino più forte dell’irrinunciabilità dei Vostri privilegi. Né di riesumarci da un’«inerzia» nella quale noi – noi no – non siamo mai caduti.
In tutti questi ultimi quindici anni, in cui Lei si è visto circondato solo da «inerzia», intorno a me c’erano milioni e milioni di Italiani, che – anche se per professione non si occupano di mantenere vivi il Passato, il Sapere, la Bellezza – sono tutto fuorché «inerti».
Noi c’eravamo e ci siamo, Professor Della Loggia. Voi – piuttosto – dove eravate? Ci siete?
È indubbio, come Lei scrive, che «il Paese non ha più né un baricentro né una meta. Ed è la sensazione che nel frattempo le differenze sociali, culturali e quindi geografiche tra le varie parti della penisola si stanno approfondendo; che tutti i legami vanno allentandosi: tra le persone come all’interno delle famiglie e con le istituzioni. È la percezione impalpabile che ci stiamo allontanando pian piano dal centro della corrente: come se la storia contrastata ma viva, fertile e felice, della Prima Repubblica fosse giunta al capolinea, e non riuscisse a cominciarne nessun’altra». Però io credo che al verbo «riuscire» si debba sostituire nel Suo discorso il verbo «volere».
È indubbio, come Lei scrive, che a un Paese così (ridotto) «è necessaria una scossa» per «riprendere il filo della sua vicenda in quanto nazione, riscoprire il senso e le molte vocazioni della sua identità, riacquistare in questo modo fiducia in se stessa». Ma – appunto – è altrettanto indubbio che questo Paese è paralizzato da quindici anni da una politica che profonde ogni propria energia ad impedire questa «scossa». E ciò non, come suppone Lei, per «una singolare timidezza/indifferenza a muoversi sul terreno delle questioni ideali», dato che – per muoversi nelle questioni non-ideali – non mostra timidezza/indifferenza alcuna.
In questi quindici anni io c’ero, Professore. E intorno a me non ho visto alcuna «inerzia», ma soltanto milioni di persone (un «Paese», appunto) condannato a morte dalla sua deprimente rappresentanza (rappresentanza?) politica e dai suoi potentati.
Ecco perché non voglio che questo mio Paese vada, come Lei pensa, «rianimato», ma lasciato libero di vivere e di respirare il respiro della libertà.
Creda a me, che non sono ancora così «invecchiata», nonostante la vita d’inferno che mi è stata imposta negli ultimi quindici anni senza che potessi difendermene, in un’Italia molto diversa da quella in cui – evidentemente – ha vissuto Lei: un Paese vivo non ha alcun bisogno di «attaccarsi» al suo glorioso Passato di Sapere e Bellezza.
«Attaccarsi» evoca l’atto di nutrimento del parassita. A me piace di più il verbo «alimentarsi». Ecco perché credo che l’Italia, per essere viva e non limitarsi solo a sembrarlo, abbia bisogno di «alimentarsi» dell’energia e della forza di chi – a dispetto di chi lo ha governato e lo governa facendo di tutto per disperdere ogni Passato, ogni autentica «identità e ogni fiducia» – il Sapere e la Bellezza ha continuato a coltivarli ogni giorno, guardando, oltre che al Passato, al Futuro.
Credo che per tornare ad essere un Paese che respira e «sa trovare le parole, le immagini e le idee giuste», l’Italia abbia bisogno di realizzare quel sempre rinviato ricambio generazionale indotto dal merito e non dalle sostituzioni strategiche impartite dall’alto, di cui da troppi anni si blatera e che le scelte della destra al governo, in curioso contrasto ai proclami, definitivamente accantonano.
Credo che per poter degnamente tornare a parlare di passato, di bellezza e di sapere l’Italia non abbia bisogno di proclami, ma di ascoltare la voce (senza propensione alle maiuscole) di coloro che hanno continuato a coltivare il passato, la bellezza e il sapere a dispetto del dissennato massacro esercitato ai loro danni e ai danni del Passato, della Bellezza e del Sapere ad opera di Ministri dell’Università e della Ricerca e dell’Istruzione che pensano (?) al sapere come a un prodotto seriale d’industria e ad una merce da svendere al migliore offerente.
Io – non so Lei – credo solo in coloro che non si sono arresi mai: a dispetto di tutto e a dispetto di tutti. E che lo hanno fatto con impegno e con sacrificio. Senza nessuna «inerzia», dunque, e senza alcun bisogno, ora, di aggrapparsi ad alcuna «retorica», che non solo, come Lei scrive, è «intollerabile», ma della quale – lingua da sempre di tutti i colpevoli – ora più di ieri non sappiamo proprio che fare.
Delia Garofano