A dodici anni m’innamorai della fiamma tricolore. I comizi di Almirante, la passione politica, la storia proibita, l’amor patrio come scandalo da sbandierare. Poi venne Rauti e la speranza presto abortita di una rivoluzione culturale, sociale e nazionale. Seguì il disincanto, la critica al Msi, la cultura senza politica e la necessità di andare oltre, verso una nuova destra. Basta con la testimonianza e il rancore, meglio una destra che incide nel presente, dialoga e si apre al nuovo, vedi Craxi. Riviste, idee, proposte. È bello l’elogio dei vinti ma in politica si punta a vincere.
Da quel coagulo nacque, con la seconda Repubblica, Alleanza nazionale; la destra si fece postfascista in modo sbrigativo, trovò alleati, andò al governo, al rimorchio di Berlusconi. Ma incise poco e niente, non lasciò tracce del suo passaggio, non formò una nuova classe dirigente, perì col Novecento, divenne la fotocopia scialba del suo alleato, infine si spense nella pochezza dei suoi leader e nel carrierismo dei suoi quadri. Emerse l’affarismo, perse gli ideali senza guadagnare in destrezza di governo.
Ora che della destra restano poche ceneri e dispersi ranghi, vien voglia di rivalutare la testimonianza vana. Dopo la storia c’è il vintage. Se è difficile scegliere il male minore e dare il voto utile, torna l’alternativa tra voto inutile e nocivo. La destra resta un sentimento prepolitico, ma è necessaria in politica. Certo, agli altri non va meglio; ma se almeno quei tronconi venuti da destra si riunissero in un solo movimento…
Marcello Veneziani
(da “Il Giornale” – 19 febbraio 2013)